C’è un verbo in inglese
Che è molto diverso dalla scelta di parole utilizzata in italiano.
Che io ami le parole è noto. Che io trovi poetica la combinazione che possono avere tra di loro, i significati unici che possono accendere in chi li legge, forse, pure.
Esistono delle combinazioni che poi sono quasi una cifra stilistica, a volte delle lingue, a volte delle persone. Come se ci fossero dei mondi che sono accessibili solo attraverso quella specifica chiave che è poi la parola; ma non la parola di tutti, la parola di qualcuno. Quel qualcuno.
Esiste quindi questa combinazione in inglese che non ho trovato anche in italiano.
Noi, inteso come le persone italiano-parlanti - direi anche scriventi - quando dobbiamo parlare di un dolore che non va né su né giù, qualcosa da masticare, da collocare nel tempo e nello spazio corretti, utilizziamo il verbo “elaborare”
Il verbo elaborare dal latino elaborare, infinito presente attivo di elaboro, ovvero "realizzare con fatica e cura", composto di e, ex e laboro, "affaticarsi", a sua volta da labor, "fatica, sforzo, lavoro"
Direi un rimando molto puntuale a quanta energia ci voglia per fare a pezzetti - nel senso più digestivo del termine - quella ferita e poi trasformarla in cicatrice. Una specie di moto perpetuo per continuare a creare, anche di fronte al bisogno talvolta pungentissimo del dolore di spegnere, mettere a tacere. Insomma, fermare. Congelare.
Non ho ancora sentito di dolori che si coniugano al tempo futuro, nel senso di progettarlo con trepidazione. Spesso parlano la lingua del futuro per rimarcare come non sarà possibile una vita dopo. Come se non ci fosse altro.
Sempre. Mai.
Gli avverbi che preferisce.
Tutto. Niente.
I pronomi che sostiene con forza.
Il verbo elaborare restituisce un’immagine quasi ingegneristica. Un processo.
Tu porti le prove. Ne discutiamo. Le categorizziamo. Capiamo se ci sono delle testimonianze a supporto. Ascoltiamo i testimoni. Capiamo quali leggi sono state rispettate e quali no. E poi c’è il verdetto. La sentenza.
Un modo di affrontare la perdita o la ferita con estrema analisi, quasi un approccio chirurgico, verrebbe da dire. Apro, chiudo, punti di sutura. Cura. Riposo. E si riparte.
Esiste, come dicevo prima, per sforzarmi di non dilungarmi troppo su tutte le porte che mi aprono le parole, un modo in inglese per dire la stessa cosa che però non è per niente la stessa cosa.
Navigate grief.
Navigate loss.
Navigate.
In italiano diremmo “navigare”, ma chi è che lo dice? Nessuno, appunto. Chi ha fatto lingue o chi ama parlarle o studiarle sa che quando ci si approccia a una lingua diversa dalla propria bisogna trovare il modo di lasciare la madrelingua fuori dalla porta. E approcciarsi a quelle nuove parole e mondi come se fossero i primi mondi descritti e imparati da bambini.
Navigare il dolore.
Navigare la perdita.
Nessuno qui lo direbbe.
Ma ha invece tantissimo da dire e raccontare su come potrebbe essere vissuto il percorso, anche il più doloroso dei.
Navigare, un verbo che parla di come si debba trovare la rotta, indicarsi la strada, ma attraverso il movimento. Non certo la fermezza. Non attraverso i dati. Ma con l’energia.
navigare (ant. navicare) v. intr. [dal lat. navigare, der. di navis «nave»] (io nàvigo, tu nàvighi, ecc.; aus. avere). – 1. a. Effettuare un percorso (o un viaggio) in mare o su un fiume o su un lago, [...] da un sito all’altro.
Un verbo che parla di un percorso, forse maneggiando il tempo del futuro ma soprattutto del presente.
Invece di tutto, niente, mai e sempre, forse parla più la lingua del “vediamo”, “non lo so”, “qui”, “ora”, “chissà”
Lasciarsi trasportare da una corrente che esiste comunque e esisterebbe lo stesso, con o senza di te.
Forse perché non è nemmeno vero che i dolori sono personali - nel senso più sfortunato del termine. Ci scelgono, ci sfidano, a tutti. Come se fossimo in un mare comune di onde da cavalcare. Con più o meno vento. Con tanti o pochi strumenti. Ma tutti in barca. Alcuni con tantissimi remi. Altri solo con la forza del vento.
E se è vera tutta questa storia sui mondi che aprono le parole, forse è anche vero che il dolore è un portale per scoprire delle cose. Che esistono da sempre, ma che non sono mai esistite così.
Uno spazio da navigare, per vedere dove porta.
Una corrente da seguire, perché sa la strada.
Uno spazio in cui si finisce, ma forse - a dirla tutta - si inizia davvero qualcosa, per la prima volta.
m.
Grazie Marta 💕