-#22.
della sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso il destino quando, d’un tratto, esplode
Quando all’età di nove anni mi ruppi il polso, la frattura fu tutt’altro che silenziosa
Una morsa allo stomaco, la testa che girava fortissimo, il fiato che mancava e i contorni del fuori che sembravano tutto d’un tratto diversi, sfocati, forse a fuoco per la prima volta per com’erano davvero. Non saprei dire. Fatto sta che il rumore sordo che c’è stato - che poi in effetti ho sentito solo io - era palese pure per chi passava di lì. Non entrerò nel merito della visione di quelle ossa non solo fratturate ma pure scomposte - ribelli, per così dire. Non solo rotte, ma anche con la sfrontatezza di essere andate fuori sede. Non solo in frantumi, pure sfacciate. Fuori dai binari. Impossibili da non notare.
Nessun testimone mi confermò il rumore dell’osso rotto sulla pista di pattinaggio sul ghiaccio in un inizio di gennaio qualsiasi, ma io sono quasi certa che se qualcuno avesse ricevuto il mandato di fare attenzione, lo avrebbe sentito. Forte e chiaro. Perché ci sono cose che quando si rompono fanno rumore. E si fanno notare. È anche una rassicurazione, a pensarci. Se qualcosa si rompe rumorosamente, intendo. Perché così tutti possono essere lì pronti a raccogliere i pezzi, anche se gira la testa e il bisogno di vomitare tutto quel dolore copre tutto, perché all’improvviso sono uscite dalla sede dei bastoni durissimi con dei compiti molto precisi: garantire il movimento, lo spostamento. La crescita. Al loro interno saranno anche spugnosi, fallibili e in un certo senso fragili, perché basta la giusta leva per spezzarli. In un giorno particolare. Con un movimento preciso. Ma quello che tutti ti insegnano è che le ossa sembrano, per la maggior parte della loro esistenza, rispetto ai colpi presi e inflitti, indistruttibili.
Finché non si rompono.
La menzogna è quando ti fanno credere che qualcosa si rompe solo se fa rumore.
Se un ortopedico lo può testimoniare. Se esistono delle fratture visibili, scomposte addirittura. Ma comunque certificabili. Cioè chi è che di fronte a un osso rotto direbbe che non lo è? Fa male prima dentro che fuori, vero, ma è indubbio anche - soprattutto - dall’esterno.
Alessandro Baricco scrisse invece della sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso il destino quando, d’un tratto, esplode.
A volte le cose proseguono, senza la minima incertezza, come se fosse destino che avanzino imperterrite in quella traiettoria, quando all’improvviso, senza nessun preavviso e più frequentemente senza suono, esplodono.
Il rumore sordo che causano non è sempre devastazione. Spesso ha più le forme di una rinascita, perché cambiano i confini, riscrivono le strade. Come se le ossa rotte non ne potessero più di stare in quel posto e decidessero di mettere la testa al di fuori per vedere come si sta nei confini della pelle. Certo, meno doloroso. Forse solo apparentemente.
Chi studia o ha studiato lingue lo sa. Forse anche chi semplicemente si è interfacciato con la pratica di imparare qualcosa per cui ci sembra di non essere stati creati per. Se nasci con una lingua in testa, impararne un’altra, pensare in altre parole, sembra quasi una violenza, un’invasione in piena regola di tutto quello che credevamo di avere talmente tanto sotto controllo da poter conoscere a memoria, anche a luci spente. Dicono che casa sia dove riesci a orientarti anche a luci spente. Le parole e in generale le cose innate, incise e sostenute da anni di conferme, me le immagino proprio così.
C’è un momento in cui, nonostante l’esposizione costante alla grammatica, ai suoni, ai dialoghi in questa nuova lingua fatta di parole più o meno incomprensibili, la curva dell’apprendimento sembra non decollare mai. Si continua a non capire niente, esattamente come il primo giorno. L’unica cosa che sembra aumentare è la frustrazione. Perché nonostante la costanza, la disciplina, la dedizione, niente cambia.
La lingua continua a non essere decifrabile. Incomprensibile.
Le ossa continuano a essere fratturate. Scomposte.
Sembra impossibile pronunciare suoni diversi, collocarsi nello spazio con parole diverse e addirittura riprendere la mobilità di un braccio che si è frantumato. Non funzionerà mai. Nè come prima, né come poi.
Poi, come succede, tutto d’un tratto, esplode.
Non il destino.
Ma la storia che stavamo scrivendo con pazienza e metodo.
Da un giorno all’altro il dolore della frattura sparisce e sembra normale poter muovere il braccio. Impensabile è il dolore provato prima. Non dimenticato, certo, ma pronunciabile.
Le parole escono come se fosse normale emetterle in un’altra lingua.
La curva d’apprendimento è esplosa.
Chi ha mollato un centimetro prima non ci crede. Non pensa che sia possibile questo cambiamento dall’oggi al domani.
La verità, se è vero che il destino è silenzioso fino al giorno in cui esplode, è che chi ha la pazienza di aspettare che la curva d’apprendimento della lingua faccia il suo corso, o la frattura ossea piano piano ritorni in sede per riprendere la sua funzione primitiva, sta semplicemente facendo un altro tipo di allenamento: quello che non porta ogni giorno un passo avanti, ma fa acquisire le competenze necessarie per capire che solo aspettando, provando a non svegliarsi la mattina per fare, ma provando a vedere le giornate come delle costruzioni per un momento futuro, solo così, allora, la curva, prima o poi, esploderà.
E non sarà rumore.
Ma musica.
m.