con la noia ci vado a braccetto
fedele compagna, metro di giudizio - spesso, purtroppo - insindacabile: se mi annoi, tu, una situazione, una storia, una frase, una parola, poi devo farci i conti
il rapporto con la noia ha radici antiche, ma non è sempre stata una guerra. anzi.
da piccola era una fedele compagna, mi piaceva tantissimo stare nel giardino di nonna bianca a fare - letteralmente - niente. apparentemente niente. perché poi in quel giardino succedeva di tutto: moltissimi animaletti interagivano con lo spazio, lo studiavano, lo ammiravano e io mi riempivo gli occhi con le loro interazioni in un linguaggio che poi chissà qual era.
questo spazio pieno di niente era il mio ossigeno: spesso le giornate erano pienissime di cose da fare, tra lo sport, la scuola, i compiti, le merende con le amiche e poi di nuovo lo sport, i compiti, la scuola. ricordo la sensazione di avere sempre il fiatone e di essere in una rincorsa continua di chissà che. i giorni volavano troppo veloci. e io non so dire se ci stavo dietro o più dentro. ma quei momenti, in quel giardino, erano letteralmente aria in una realtà spesso soffocante.
la noia è stata anche un pilastro fondamentale della mia educazione, secondo i racconti di nonna e mamma: martina, devi imparare ad annoiarti. impara a fare niente. dicevano servisse a creare: se non hai niente, qualcosa lo crei. inventarlo, immaginarlo, sognarlo. insomma, tieni attivo tutto. così dicevano loro almeno. l’ho capito davvero poi dopo un po’.
nel mio lavoro la noia è tanto essenziale quanto mortale: da una parte, devi annoiarti per poter pensare a qualcosa di interessante. anche solo per rompere il ritmo. nonna bianca e mamma sono state le mie prime direttrici creative, verrebbe da dire.
dall’altra parte, la noia è mortale.
quando devi scegliere le parole, tra tutte, impari a fare un gioco molto poco divertente. escludi, più che includere. questa parola no, questa nemmeno. no, no, no, non intende proprio quello che voglio dire.
no.
escludere non è in effetti il movimento migliore per creare, ma è quello che succede quando devi fare pulizia tra tutte le possibilità che esistono e trovare quella che meglio veste la forma delle cose che vuoi comunicare. e così si impara molto presto che spesso le persone usano sempre le stesse parole. a volte la parola più veloce da pensare è quella che meno esprime il concetto che in realtà si vorrebbe dire. si finisce per odiare il modo in cui si scrive perché sembra sempre di dire le stesse cose, nello stesso modo, con lo stesso ritmo e la stessa cadenza.
a me, a dirla tutta, sembra spesso così.
spessissimo.
ami, per contro, chiunque riesca a pescare in questo gigantesco calderone di pensieri e parole qualche immagine che sembra essere sempre rimasta appoggiata sulla spalla, ma che non ha mai preso la luce data dalla forma delle parole prima e della voce, poi.
insomma, ci sono persone capaci di creare e di dire quello che tu hai sempre solo pensato, a volte nemmeno consciamente.
rendere il personale universale è un po’ il ruolo della letteratura: quello che han sempre insegnato a me, perlomeno. la letteratura unisce, perché di fatto sperimentiamo tutti e tutte le stesse cose, c’è solo qualcuno che a differenza di altri cerca la forma migliore per dargli spazio. e lo spazio lo crea la parola.
allora, forse, questa ricerca spasmodica della parola giusta, non deve tanto avere come obiettivo quello di non dire niente, perché non si può dire niente che renda giustizia a questa immagine tanto cristallina che ho in testa, ma ha il compito nobile di dare voce a chi le parole le legge solo. chi le sogna. chi le ascolta. e quando incontri qualcuno capace di farlo, nasce la vera magia.
non leggi degli altri. ti leggi. non impari il mondo. ti conosci, dentro. non guardi paesaggi immaginari. guardi le fondamenta della tua persone e cosa hai imparato negli anni ad appenderci sopra. come le ricami. come le ossigeni. come si soffoca la linfa che una volta era pulsante e visibile a tutti. e poi, chissà quando, perché, grazie alla voce di chi, ha iniziato a nascondersi.
lucio corsi, ad esempio, voleva essere un duro. a cui non importa del futuro. un robot. una gallina dalle uova d’oro.
però non è nessuno, non è nato con la faccia da duro, ha anche paura del buio e se fa a botte le prende. così gli truccano gli occhi di nero. ma lui non ha mai perso tempo. è lui ad averlo lasciato indietro.
vivere la vita, dice, è un gioco da ragazzi.
ma il mondo è duro per quelli normali, che hanno poco amore intorno o troppo sole negli occhiali.
troppo sole negli occhiali
è come quando hai da sempre saputo e sentito il profumo di qualcosa. che per te è familiare, addirittura ti fa sentire a casa. se lo senti, sai di essere nel tuo posto. e poi arriva qualcuno o qualcosa e, improvvisamente, accende la luce. la luce sul mondo. e non sei più tu da solo con troppo sole negli occhiali. occhiali che possono servire a guardare meglio, a tenere aperti gli occhi, a coprirli, perché a volte fanno vedere peggio. perché ti danno l’illusione di aprirti lo sguardo quando invece espongono solo a troppo sole. lo stesso raggio che illumina ma che a volte acceca. se cerchi la strada, il sole al tramonto in fondo alla via non è proprio la guida desiderata. non lascia margine di sguardo. puoi solo guardare per terra. mai in alto. non troppo in sù. molto meglio la penombra o la notte fonda, quando tutti dormono ormai da ore.
l’architettura del poco amore intorno
la forma.
il perimetro.
gli spazi.
come negli anni si sia arredato. chi sia il vero architetto. chi abbia preso le chiavi per la prima volta e chi continui ad averne un mazzo sempre a portata di mano.
se sia casa. rifugio. prigione. tana o porto sicuro.
truccarsi già gli occhi di nero
per rendersi parte attiva di un processo che, invece, ci vedrebbe perdenti. si sa, i pugni sugli occhi fanno diventare nero tutto intorno. ma se io per primo li dipingo, allora, forse, il vero perdente è fuori. non dentro. esorcizzare la sconfitta non la rende perdita, ma, forse, solo insegnamento.
concedersi il lusso di non essere un duro, ma un normale, capace di percorrere una strada e poi cambiarla, costruire e distruggere, per poi ricominciare da capo, forse trasmette più forza, che durezza. e la forza, ha in sé il dna della flessibilità, che permette di piegarsi senza spezzarsi. il duro, invece, sottoposto al giusto stimolo, cade in mille pezzi. e lì poi incollarli è difficile. a volte impossibile.
il mondo, questo mondo, forse, è di tutti. forse solo di lucio. come dice lui, è solo lucio.
come io, dal canto (scritto) mio,
sono solo martina
m.