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Non è la prima volta che guardo Wimbledon
Il tennis mi ha sempre affascinata per la sua natura elegante e chic, i suoi codici e linguaggi che sembrano propri solo di un circuito molto ristretto, per niente interessato a farsi comprendere a capire dal fuori. Qualcuno parlerebbe di élite: cerchi di persone non interessate al di fuori, ma intente a impiegare le energie per coltivare e annaffiare il dentro. Senza timore di restare chiusi - nel senso proprio di soffocati. Una specie di grotta dove succede tutto e del resto non frega niente a nessuno.
Se di solito questo tipo di approccio, nella vita generale intendo, mi interrogherebbe molto e - lo ammetto - annoierebbe pure, il tennis ha avuto su di me questo potere qui: incuriosirmi, proprio per le cose che di solito mi respingono.
Il galateo che non sembra creare una prigione, ma anzi, quasi livellare tutto in modo che poi esca davvero la personalità di ognuno, partendo effettivamente tutti dalla stessa base.
I dress code, dal bianco puro di Wimbledon, che originariamente serviva per mascherare il sudore, rendendo quasi lo sport una non fatica. Una cosa naturale. Come se chi lo pratica non stesse facendo uno sforzo sovrumano contro parecchie leggi della fisica e anche, banalmente, giocando con il sole dritto negli occhi, dove - diciamocelo - la visiera può ben poco.
Eppure, da qualche anno, il tennis è diventato in qualche modo più popolare, destando sicuramente le frustrazioni di chi dentro quel circolo si sentiva quasi un eletto, ma sollecitando la curiosità di chi, dietro quel rito fatto di tantissime micro-regole precise, ci ha visto solo tanta passione, dei talenti incredibili, ragazzi giovani e partite dal finale mai prevedibile: si gioca tutto, sempre, nel qui ed ora. Punto dopo punto.
Mi ricordo come fosse ieri una finale di Wimbledon tra Federer e Nadal. Vinse Nadal per la prima volta. Era il 2008. 4 ore e 48 minuti. Di quel finale ricordo il boato del pubblico - molto poco inglese, per dirla tutta, ma sicuramente sportivo. Lui - Nadal - sdraiato per terra, le mani agli occhi, il respiro di chi ci aveva creduto fino a quel momento. La faccia di Federer un po’ meno soddisfatta, ma tutto sommato centrata. Era dentro quello che stava succedendo. Non sembrava di certo un Re che aveva appena perso la corona; forse solo un giocatore che, di fronte all’ennesimo match, aveva perso. Non una sconfitta. Una cosa che succede.
L’essere fallibili e urlare al mondo che no, l’invincibilità non è di certo una caratteristica da augurarsi, intendo.
Il passaggio del testimone, il lasciare che le cose e i posti vengano poi occupati anche da altri, al momento giusto.
La vittoria come l’inizio di una responsabilità, il peso di qualcosa di nuovo. E la leggerezza di chi, magari, da quel giorno, non deve più farci i conti. Intendo.
Quando Jannik Sinner ha vinto il suo primo torneo inglese, il pubblico non è esploso in un boato. C’è stato più contenimento. Lo stesso che ha avuto lui dentro alla sua vittoria, tanto sospirata, viste le ultime storie della sua vita e le ultime partite, proprio contro Alcaraz, che lo hanno visto uscire da perdente.
Un festeggiamento silenzioso, quasi imbarazzato. Ma non per questo meno potente. Sembrava ci fosse qualcosa di meno pubblico, lì. Di più intimo. La corsa dalla famiglia. Il ringraziamento a chi ha permesso la partita, i raccattapalle: sì, certo, è il codice. Fa parte delle regole dello sport, ma non siamo spesso abituati a vedere le persone gentili essere davvero gentili nei momenti in cui potrebbero tranquillamente essere dedicate a loro stesse. E nessuno potrebbe chiedergli diversamente.
E poi?
Che succede, dopo?
Una volta che hai vinto, dico.
Ogni perdita sarà una sconfitta? O la prova dell’inderogabile umanità?
Un peso da masticare e digerire o finalmente da scaricare all’altro vincitore, che ora dovrà fare i conti con il macigno - forse - dell’essere vincente?
Magari qualcuno prima di essere il numero uno era, semplicemente, e a tutti gli effetti, libero.
Ora, per un giorno e una vittoria, l’immagine che si è creato chiederà il conto.
Non per un giorno.
Ma da quel giorno.
Meglio arrivarci a 23 anni o non arrivarci mai?
Un po’ come le fiamme che bruciano tutto subito o i focolai che invece attraverso la brace durano notti intere. Forse la brace, a differenza della fiammata, ha il privilegio di poter fallire senza clamore. Se non scalda, non importa: non c'è nulla da proteggere. Niente da difendere.
Chi vince, invece, da quel momento, deve difendersi da tutto.
E gli altri?
Il pubblico che gioisce? La famiglia che ti guarda?
Il pubblico che non aveva idea - strano! - di chi fossi fino a quel giorno? Tutti i giornalisti che scrivono di te e su di te nei giornali, hanno bisogno della tua storia per poter scrivere la loro.
È un po’ il ruolo degli idoli. Quello di nutrire le immaginazioni degli altri: esserci dove i comuni non arrivano. Il simbolo di chi riesce, ce la fa.
Non più solo un atleta, ma un’ispirazione.
Non più persona, ma simbolo.
Chissà quanto ossigeno passa dai polmoni dei simboli che in fin dei conti però restano anatomicamente umani.
Forse, per qualcuno addirittura, perdere diventa la vera scelta di libertà: una specie di tentativo chiassoso, dopo le luci puntate addosso, di tornare invisibile.
Come chi si infortuna proprio a un punto dalla riuscita, chi si paralizza una volta avuta la partita in mano e chi, di fronte alla sconfitta, non si dispera.
Forse perché, per la prima volta, per davvero, si sente di non aver sbagliato;
non aver tradito nessuno.
E forse, chi vince per davvero, non un torneo, intendo,
non sente di doverlo fare sempre.
Semplicemente lo fa, quando gli riesce. Quando può.
Per com’è. Per come va. Per come è andata.
Per come andrà.
m.

